Stefania per lavoro viaggia e per passione anche. Ha trovato il modo di passare molto tempo in giro per il mondo, anche per mare, lavorando in cambio di vitto e alloggio. Bella vita, verrebbe da dire. Forse sì, forse no, sentiamo.
Stefania, iniziamo con la cornice del quadro: da dove stai chiamando?
Sono ad Antigua, nella baia di Falmouth, sulla barca di un armatore italiano che sta mettendo insieme un equipaggio per la traversata di rientro. Sistemo la barca affinché sia in ordine quando salperà.
Di dove sei?
Io sono nata e cresciuta a Milano. Facevo la tv producer in un’importante agenzia pubblicitaria internazionale. Sono divorziata e ho un figlio. Il primo passo verso il mare l’ho fatto nel 2005, quando mi sono licenziata e trasferita in Sardegna. Fino a quel momento non ero mai stata in barca. Facevo surf, ma non vela. Forse però ce l’avevo nel sangue… Mio padre era marinaio; è morto quando avevo tre anni e di lui mi sono arrivati racconti molto affascinanti.

Una volta in Sardegna, ho continuato a fare il mio lavoro come freelance, ma con la crisi del 2009 ho dovuto inventarmi altro. Così ho messo in gioco le mie capacità organizzative e la mia conoscenza delle lingue in una nuova professione e ho iniziato a fare la tour leader. Ora collaboro con diverse agenzie che hanno bisogno qualcuno disponibile a viaggiare, gestire e guidare gruppi che viaggiano per lavoro a eventi e congressi. I viaggi come tour leader sono sempre frenetici: tanti luoghi diversi in poco tempo, sempre “protetti” nei grandi alberghi e ristoranti. Quando viaggio da sola scelgo esattamente l’opposto: tempi lunghi, low cost e il più possibile immersa nella cultura locale.
Ma come sei arrivata a lavorare nelle barche?
Il mio lavoro è fortemente stagionale; tra natale e marzo e nei mesi estivi non ci sono ingaggi. Mi sono detta che avrei potuto sfruttare quei mesi per lavorare e viaggiare come piace a me, la barca mi sembrava un buon modo per farlo. Ho frequentato i corsi di addestramento per personale marittimo ed ho ottenuto la certificazione IMO-STCW e dopo qualche mese ero in Grecia su un catamarano per la mia prima stagione charter nel Dodecaneso. Questa è stata la mia prima esperienza.

Poi, nel 2016 ho compiuto 50 anni e ho deciso di farmi il regalo più prezioso che esista: il tempo. Mi sono regalata sei mesi di viaggio: ne ho passati tre su un catamarano in Australia, un’esperienza unica.
Che cosa hai fatto per poter restare in viaggio sei mesi?
Ho lavorato in cambio di vitto e alloggio con la formula workaway. Per me non era un’esperienza nuova, ero già stata in Nuova Zelanda nel 2014, ho fatto soprattutto giardinaggio, ho imbiancato una veranda, costruito un pollaio. Ho dato una mano negli ostelli a rifare i letti e preparare la colazione, insomma po’ di tutto.

Il capitano del catamarano viveva in barca e voleva raccontare la propria esperienza sui social network; io – che comunque arrivavo dal mondo della pubblicità – e un’altra ragazza, abbiamo creato per lui il brand, aperto i profili social e prodotto video amatoriali per il canale YouTube. È stata un’esperienza molto intensa perché si stava per mare anche tre settimane senza rientrare; non c’era frigorifero, quindi la spesa dei freschi era solo di mele, patate, cavoli, o carote. Per fortuna il capitano era un ottimo pescatore subacqueo e il pesce non mancava mai.
Ora con la pandemia immagino che il tuo lavoro principale sia azzerato.
Esatto è tutto fermo da almeno un anno e non so quando ricomincerà. Mio figlio ha 27 anni, è autonomo ha la sua vita e così mi sono detta: se c’è modo di ripartire io vado. Così a fine 2020 mi sono imbarcata alla pari su un catamarano ai Caraibi e ora, tramite contatti di amici comuni su Facebook, sono in attesa della traversata di rientro.

Tuo figlio cosa dice del tuo vagabondaggio?
Mi conosce ed è abituato alla mia voglia di partire. Anzi, quando sto troppo a casa e divento nervosa, gli sto troppo addosso, è lui a dirmi che è ora di andare. Se sono così è anche merito suo: un Natale di diversi anni fa mi regalò il libro Vagabonding L’arte di girare il mondo, di Rolf Potts, che mi ha dato diverse idee. Ho viaggiato anche con lui, ma siamo diversi, ha uno spirito più residenziale e abitudinario di me. Meglio, così c’è qualcuno che cura gli animali e le piante a casa 😉
Hai un blog dove racconti le tappe dei tuoi viaggi, ma soprattutto hai scritto un libro, me ne parli?
Ho scritto VagabondinGirl: Come girare il mondo lavorando in cambio di vitto e alloggio al rientro da sei mesi in cui ho viaggiato in cambio di vitto e alloggio. Ricevevo molte domande, erano tutti incuriositi da come si potesse fare un viaggio così lungo spendendo poco e ho deciso di condividere quello che avevo imparato e i consigli che mi sentivo di dare in base alla mia esperienza. La domanda immancabile era: e i soldi? come facevi a mantenerti? Nel libro ho messo giù anche tutti i conti.

La prima parte è una sorta di manuale: i siti da usare, come compilare il profilo per farsi contattare, come scegliere le proposte più adatte a seconda della destinazione. Ho aggiunto anche le mie esperienze di viaggio workaway in Nuova Zelanda, Brasile, e Caraibi. L’altra metà del libro è una sorta di auto-biografia: rivivo i passaggi più importanti dei miei primi 50 anni attraverso la lente del viaggio. Il viaggio è sempre stato la mia cura per tutto.
Che cosa intendi quando dici che il viaggio è la tua cura?
È il mio modo di affrontare i momenti difficili. Può sembrare una fuga, forse in parte lo è, ma mettere distanza e prospettiva mi ha sempre aiutato. Viaggiare mi aiuta a stare con me stessa, in contatto con le emozioni. Non significa stare sempre bene, anzi, a volte la distanza amplifica il dolore, ma forse accelera il processo di guarigione.
Quando a mia mamma è stato diagnosticato un tumore ho passato del tempo a Berlino, quando è morta avevo 20 anni e sono andata a lavorare in Florida. Dopo la separazione da mio marito sono partita con mio figlio e abbiamo passato 4 mesi in Indonesia. Succede sempre così: la prima reazione è partire, avere un progetto. Muovermi mi tiene in equilibrio, mi sento meglio girando il mondo che comoda sul divano. Anche se in questo momento, dopo tanti mesi di barca, devo dire che il mio divano un po’ mi manca.

Nelle foto e nei racconti di viaggio di solito si è sorridenti e felici, difficile vedere i momenti bui.
Ho provato a condividere anche i momenti di malinconia o malessere, ma va sempre a finire che mi sento in colpa. Chi legge commenta che sono in vacanza e non dovrei lamentarmi, su Facebook è spesso un tiro al bersaglio. Così alla fine questa parte la censuro.
Chi ha un po’ di sensibilità però credo lo capisca: viaggiare, soprattutto per tempi lunghi e lavorando, non è sempre vacanza. In barca non sto a prendere il sole: cucino, pulisco, aiuto nelle manovre di navigazione e ormeggio. Condivido spazi ristretti con persone che conosco poco e dall’umore altalenante, è impossibile che vada tutto sempre bene.

In questo mi sono molto riconosciuta nelle parole Giovanni Malquori: anche lui dice che la vita in barca dopo un po’ diventa quotidianità con tutte le scocciature che la quotidianità porta con sé. È proprio entrare e uscire dal sogno che dà la possibilità di apprezzare entrambe le vite, quella a terra e quella per mare.
Le immagini di questo articolo sono di Stefania Conte, che ringrazio per avermi scritto e telefonato, anche stando dall’altra parte dell’Oceano. Buon vento.