Come si organizza un viaggio di un anno e mezzo per mare su una barca di 9 metri? Contatto Djuca per farmelo raccontare e sembra che gli ingredienti principali siano: un amico come Tim, non porsi troppi limiti e avere fiducia negli incontri che si fanno in viaggio.
Prima di raccontare la tua avventura dimmi un po di te. Di dove sei, quanti anni hai…
Quando sono partito avevo 25 anni, ora ne farò 27 a novembre. Sono nato a Bali in Indonesia, mia mamma è italiana – originaria di Gabicce Mare, Cattolica – e si trasferita là negli anni 80. Lei mi ha insegnato a parlare italiano.
Quando hai iniziato ad appassionarti alla vita di mare?
Il mare è sempre stato al centro delle mie esperienze e delle mie avventure. Ricordo che quando avevo 6 anni mi portò a fare uno dei primi giri su barche tipiche indonesiane e subito mi innamorai di quel modo di viaggiare. In quella zona del mondo le isole sono praticamente infinite. Da lì mi è rimasta quell’idea indefinita che nella vita avrei voluto fare qualcosa con le barche.
A 14 anni un amico della mamma mi chiese di lavorare per lui nella sua attività di ristrutturazione barche, perché ero l’unico che nella zona sapesse parlare le lingue di cui aveva bisogno (italiano inglese e balinese). Ho fatto da traduttore su un catamarano e stavo tutto il tempo a fare in modo che tutti si capissero. Poi mi sono appassionato e ho lavorato lì per un anno e mezzo ristrutturando barche: dipingevo, facevo il meccanico, costruivo impianti elettrici. Non ero un professionista, ma aiutavo tutti e piano piano ho imparato.
Dove hai conosciuto Tim?
A Bali, ma lui è di Roma. Tutto è cominciato per colpa sua due anni fa: ero in Italia e pensai di andare a Roma per il suo compleanno. Lui dal nulla mi propose di prendere una barchetta insieme.
“Aò, ce sta ‘na barca, ‘namo a vederla.”
“Mo so passato pe’ tre ggiorni, non è che posso comprà ‘na barca.”
“Allora andiamo solo a fare un giro.”
Poi quel giorno è successo che abbiamo tirato su le vele e ci siamo fatti una veleggiata della madonna. La barca aveva dei problemi, però era piccola e facile da usare. Sul momento non ho detto nulla, dovevo rientrare in Indonesia. Ma a Tim è difficile dire di no: abbiamo messo insieme i pochi soldi che avevamo e dopo qualche mese ero di nuovo con lui a bordo della Mon Amour. [Pierrot 9.16 del 1976]

Il programma qual era?
Serviva metterla a posto, era un problema anche solo tirare su le vele. Iniziammo pulendo. I tempi di sistemazione si stavano allungando, si avvicinava l’estate e all’ormeggio ci chiesero un prezzo triplo rispetto all’inverno. Dovevamo spostarci per risparmiare almeno il posto barca. Tim propose di andare verso la Toscana. Ecco, lì inizio il viaggio.
Era di fatto la prima uscita.
Esatto. Neanche 20 miglia e già la situazione precipitò. Il rolla fiocco non girava, forzandolo si staccò lo strallo di prua. Ci rendemmo conto che non c’era da scherzare. Anche con una barca piccola – 9 metri è un natante e vai senza patente – ci si può davvero fare male. Così ci siamo fermati per recuperare energie e sistemare il minimo indispensabile.
Giugno 2018, inizia l’estate.
Le prime rotte sono state da Roma all’Elba, poi Corsica, Sardegna e rientro a Roma. I primi ingressi in porto straniero, le prime notturne. Alla fine di questo giro abbiamo iniziato a sentirci sicuri delle nostre capacità e soprattutto del feeling che si era creato con la barca.
C’è mai stato un momento in cui avete fatto un piano di dove andare o quanto stare via?
No, abbiamo seguito il vento. Avevamo davanti a noi tutta l’estate e nessun impegno alla fine. Pensavamo alla Spagna come tappa finale, ma era un traguardo lontano.

Come facevate a guadagnarvi da vivere?
Gli amici che venivano a bordo portavano un contributo: soldi, cibo o lavoro. A Bali ho lavorato in un ostello per diversi anni e ho conosciuto tanti viaggiatori con cui sono ancora in contatto. Quando ho detto che stavo su una barca in tanti hanno scritto per venirmi a trovare. La rotta dipendeva dal vento, da quanti eravamo a bordo e da come potevano contribuire. Non andavamo mai al porto. Sempre in rada, a volte da qualche pescatore o in qualsiasi banchina si potesse fare una sosta di qualche ora. Poi ripartivamo.
Energia elettrica e acqua?
Avevo installato due pannelli solari e due batterie: non ci siamo mai attaccati alla corrente per un anno e mezzo. Quando facevamo benzina riempivamo la cisterna d’acqua da 150 litri a prua. Era una molto grande per una barca da regata. Probabilmente il proprietario precedente aveva fatto una modifica che per noi è stata utilissima.

D’accordo: è estate e vi siete divertiti per mare, ma poi?
In Sardegna avevamo fatto amicizia con un tedesco che aveva un Jeanneau Sun Magic dell’88: un 44 piedi con superficie velica doppia della nostra. Una volta arrivati a Maiorca ci scrisse che non poteva più tenere quella barca: la moglie si era ammalata e i figli non erano interessati. Ci propose di comprarla a un prezzo molto basso, con due anni di tempo per pagare.
Un’occasione da cogliere o un passo troppo lungo?
Io non ero convinto di essere in grado di portare una barca così grossa, ma Tim non si fece intimorire. Così lasciammo la nostra Mon Amour in Spagna, affidata a un amico che se ne sarebbe preso cura in cambio di poterla usare, e noi andammo in Croazia a vedere la barca. Nel frattempo feci la patente nautica. Ci convincemmo e accettammo l’accordo: partimmo da Pula, rotta verso Gabicce Mare. Fu emozionante vedere tutta la famiglia aspettare al porto per vederci arrivare con questo barcone spuntato dal nulla.

E non vi siete fermati?
A Gabicce caricammo altri amici per puntare di nuovo verso la Spagna, volevamo passare l’inverno alle Canarie. Non dico che sapessimo esattamente cosa fare, ma almeno avevamo imparato cosa non fare.
Com’è il Mediterraneo con il freddo?
Di sicuro non è piacevole. Abbiamo affrontato un inverno molto insidioso. Ma la barca andava, il vento c’era e ci siamo fermati solo quando il maltempo era esagerato. Arriviamo a Maiorca in tempi velocissimi, ma capiamo presto che quel tipo di barca non era per noi: troppo bella e troppo grande. Era perfetta per fare charter, così troviamo un compratore a Maiorca e la rivendiamo.
A quel punto iniziate a pensare al rientro?
Più o meno. Tim prima accetta una richiesta di un armatore che aveva bisogno di aiuto per arrivare alle Canarie, mentre io dovevo rientrare in famiglia per un periodo. Ci siamo dati appuntamento a Barcellona a giugno. Era passato un anno e avevamo di nuovo un’intera estate davanti per rientrare con calma e goderci la nostra Mon Amour assieme agli amici.

Oltre all’esperienza di vela, che cosa ti porti a casa da questo viaggio lungo un anno e mezzo?
Ho imparato il vero significato della parola aspettare. All’inizio, quando ti trovi fermo per riparazioni o maltempo, assomiglia a portare pazienza. Ma poi con il viaggio la percezione del tempo cambia: non si trattava più di attendere, era semplicemente la nostra vita.
Ci siamo trovati a ridurre sempre di più il tempo che passavamo a terra: dopo poche ore ci prendeva subito la voglia di ripartire. Mon Amour è una barca da regata degli anni ’70: non ci si sta in piedi, il bagno è in mezzo alla cabina di prua. Non è una barca comoda, eppure era lì che volevamo stare. A terra ci sentivamo stranieri in esplorazione. Ora che il viaggio è finito non ti nascondo che è dura, nonostante le comodità mi sento smarrito.
Avete altri programmi?
Abbiamo messo in vendita Mon Amour purtroppo. Io rientrerò in Indonesia e dopo questo viaggio mi sento pronto per tornare dove lavoravo prima e mettere a frutto l’esperienza. Mi piacerebbe unire le mie due passioni – vela e surf – e portare i turisti a scoprire le meraviglie del mare, educandoli al rispetto dell’ambiente. Ma prima cercheremo un passaggio per fare l’Atlantico, perché una traversata ci vuole.

Tutte le foto di questo articolo sono di proprietà di Djuca e Tim. Grazie per aver condiviso la vostra storia. E chissà che un giorno non si veleggi insieme, in Indonesia.