Mi imbarcai per la traversata dal Mediterraneo alla Canarie a fine ottobre 2017. Volevo mettermi alla prova in una navigazione più lunga e impegnativa di una vacanza in crociera. Volevo vedere il mare lontano dalla riva e scelsi il tratto che precede la vera traversata oceanica: Malaga – Lanzarote.
Tornai dal quel viaggio senza parole. Gli amici mi chiedevano di raccontare e io liquidavo tutto con pochi aggettivi superlativi ma nessun dettaglio. Sembrava che le parole sminuissero l’importanza di quello che era successo, senza che sapessi esattamente cosa.
Un anno per scrivere di questo viaggio, e ancora oggi non ne sono soddisfatta, ma era ora di iniziare.
Mal di mare in 3, 2, 1…
24/10/2017 – Salpiamo da Benalmadena nel tardo pomeriggio. Cerco di ripetermi in testa le indicazioni del capitano: dispositivi di sicurezza, turni di guardia, ma soprattutto turni di cucina. (L’idea di dover cucinare per 8 persone mi spaventa di più della sveglia notturna.)
Dalle 18 alle 19:30 è il mio turno al timone. Appena finito scendo sottocoperta per appuntare i dati nel giornale di bordo: errore!Il fastidio che avvertivo diventa malessere intenso; torno su velocemente e fisso l’orizzonte, ma il mal di mare non mi molla.
Commetto un altro errore: rimango fuori anche quando il sole è sceso e inizia a fare freddo. Non ho nulla per coprirmi e figuriamoci se chiedo a qualcuno di scendere sotto coperta per me. Sommo alla nausea il freddo e si blocca la digestione, non ho scampo. A poche ore dalla partenza vomito più volte e non recupero. Mi stendo in cuccetta scossa dai brividi e sudore freddo, sotto tutte le coperte e giacche che trovo.
Non ce la farò mai ad arrivare alla fine – penso – sarà un disastro, chi me lo ha fatto fare, che idea mi è venuta, lo sapevo. E tra questi pensieri crollo in uno stato di semi-incoscienza che fa passare alcune ore. Verso mezzanotte il capitano viene a chiamarmi: stiamo per arrivare a Gibilterra. Combatto contro lo sfinimento ed esco a vedere le Colonne d’Ercole.
La Rocca ha un cappello di nebbia sotto il quale gli occhi rossi dei fari scrutano i naviganti. Passano navi enormi, gli strumenti le segnalano con bip-bip incessanti. Nel buio dardeggiano i fuochi delle raffinerie. Tra le luci dell’Europa e dell’Africa si intravede un varco nero: lì c’è l’oceano che ci aspetta.
Il motore ha bisogno di un controllo e decidiamo di ormeggiare a La Linea, così il giorno dopo si potrà approfittare di qualche ora per passeggiare fino alla Rocca. Tiro un sospiro di sollievo, bevo un tè e torno a dormire.

Tutti i desideri sono esauriti
25/10/2017 – Il mio turno inizia alle 3 stanotte. Dovrei andare a letto presto ma le chiacchiere serali in pozzetto sono la parte più bella della giornata e sono un po’ restia a scendere sotto coperta. Vado a dormire già vestita, quando suona la sveglia devo solo infilare la giacca. Ho un abbigliamento poco tecnico, l’umidità di notte fa sentire di più il freddo.
Il mare è calmo. Con il pilota automatico l’unico compito è tenere d’occhio il nero: qualsiasi luce all’orizzonte, qualsiasi riflesso, va preso in considerazione. Sono sempre in coppia con qualcuno di più esperto, per fortuna.
Non ho mai visto un cielo come questo: le stelle cadenti striano il cielo in continuazione. Navighiamo immersi nella via lattea: metà sopra di noi e metà riflessa sull’acqua. Il tempo è lentissimo, le chiacchiere poche. Quando la lotta con il sonno è feroce scendo a prendere un tè e due pezzi di cioccolato. Alla fine di quel turno scriverò sul diario di bordo:
Mare calmo, stelle cadenti. Tutti i desideri sono esauriti.

Niente di speciale
26/10/17 – Mi sveglio con l’accensione del motore. Non c’è vento. Con calma preparo la colazione e la porto in pozzetto. Mi sento temeraria, aggiungo il latte nel caffè, sono quasi sicura che oggi non mi farà male; il mare è una tavola.
Siamo al largo delle coste marocchine, serve fare attenzione ai pescherecci. Non si vede terra da nessuna parte, proprio come diceva Alice. Faccio un video da mostrarle, quando tornerò.
Niente di speciale: siamo soli, in mezzo al mare.
Tutte le scelte che non ho fatto
27/10/2017 – Immaginavo che la navigazione oceanica fosse sempre a vele spiegate, con il vento da domare. Invece di vento non ce n’è. L’equipaggio si riunisce per decidere se avvicinarsi alla costa per una sosta di un paio di giorni in attesa del vento o proseguire a motore. Vogliamo tutti il vento, decidiamo di fermarci ad aspettare.

Per entrare al porto di Rabat si deve risalire il fiume Bou Regreg. La differenza di profondità del fondale fa increspare il mare. L’accesso è stretto e contro corrente. Sotto indicazioni della capitaneria la barca prende la rincorsa su un’onda e surfa per superare l’accesso. Attraversiamo la foce come dei divi acclamati dal popolo: cori di Bienvenu! dei ragazzi che nuotano e Poisson frais! dalle barche sgangherate dei pescatori.
Restiamo ormeggiati alla dogana per due ore e mezza prima di sbarcare, assieme a una famiglia tedesco-brasiliana che si prepara ad attraversare l’Atlantico per tornare a casa e a un gruppo di ragazzi svedesi che trascorrono un anno sabbatico in giro per il mondo. Parlo con loro, assetata di storie e di diversità. Quanti sono i modi in cui posso scegliere di vivere la mia vita? Ho mai veramente scelto?

Pensieri stagnanti e guizzi dorados
Dopo i giorni a Rabat, passati con lo spirito dello studente in gita, la navigazione riprende ancora senza vento. Il respiro dell’oceano si fa vedere lungo e pigro. La superficie dell’acqua è oleosa. Le giornate sono scandite dalle attività di sopravvivenza: mangiare, dormire, turni al timone. Si registrano picchi di attività solo quando abboccano i pesci alla canna lasciata penzolare a poppa. Il mare è stato generoso: tonnetti e dorados fino a dover ritirare la lenza, per non buttarne. Guadagnarsi il pasto in oceano ha per me un sapore strano: combattuta tra il dispiacere di vedere i pesci fuori dall’acqua e la soddisfazione di gustare il sapore del mare nel piatto.

Un buco nel diario
Il mio diario non parla dei quattro giorni da Rabat a Lanzarote. E, cosa ancora più strana, nemmeno la mia fotocamera. Smisi di prendere appunti sia con la penna che con le foto. Smisi di cercare di ricordare e mi limitai a vivere. Non ho grandi dettagli da descrivere infatti.
So con certezza, però, che la cosa più importante è successa in quel tempo sospeso, quando il telefono non funzionava, e la salsedine mi aveva scollato di dosso tutte le etichette. Non mi ero mai avvicinata alla meditazione prima, eppure credo di aver iniziato in barca, una di quelle sere seduta a prua, guardando un tramonto senza fotografarlo.
La fine, che poi è diventata l’inizio
Era l’alba, si scorgeva terra e io ero spaccata in due. Il mondo piccolo e necessario della barca stava per svanire: avrei dovuto essere felice del compimento della traversata, invece non ne avevo ancora abbastanza. Ho aspettato ore prima di accendere il telefono e connettermi con il mondo.
Un anno fa sembrava che il viaggio fosse finito, invece era appena iniziato.
Un anno fa non avevo parole per raccontare questo viaggio.
Oggi, qualsiasi cosa io faccia, so che è dentro a ogni parola che dico.
Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poichè le parole le immiseriscono. […] Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto e potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. (Stephen King, On Writing)