Laura non va solo per mare, lei lavora per mare. È romana ma vive a Palma de Maiorca. Fotografa, garden designer, marinaia e ora chef. Ha scritto un libro, Svalbard – A vela nell’arcipelago di ghiaccio, dove racconta il suo imbarco di sei mesi nei mari del nord. All’inizio il titolo doveva essere: Mai più senza un fucile. Ora scopriamo il perché.
Laura, come hai iniziato ad andare in barca?
Vado in barca dal 2001, quindi navigo da circa 19 anni. Ho iniziato come tanti: per caso. Alla fine di una vacanza in barca un’amica che era con me si fece una passeggiata in banchina per cercare lavoro. Era il 2000 ed era molto raro che una donna cercasse imbarco per lavoro. La presero e si fece tutta l’estate. Io invece tornai al mio lavoro di fotografa, ma con poca soddisfazione perché l’avvento del digitale aveva completamente cambiato le regole del foto-giornalismo. Così la stagione successiva decisi di provare anch’io e mi presero.
Con quali mansioni?
Non sapevo nulla di navigazione, mi presero solo perché sapevo cucinare. Mi imbarcai come cuoca, hostess e marinaia: eravamo solo due di equipaggio e serviva comunque fare un po’ di tutto. Mi resi conto solo più tardi di aver iniziato la mia carriera con una barca preziosa. Era uno Swan 65.1, una Rolls-Royce del mare.

Il tuo libro non parla solo di viaggiare per mare ma anche di lavorare per mare. C’è una bella differenza.
Andare per mare è una delle cose più belle al mondo: quando ti muovi a vela senza avere appuntamenti e orari puoi girare il mondo accendendo il motore solo per entrare in porto. E se vuoi puoi evitare anche il porto. È un approccio alla vita in simbiosi con la natura e i suoi ritmi. Lavorare per mare invece è tutt’altra cosa. Chi decide dove andare e cosa fare è l’armatore. Il comandante traccia la rotta e le tappe in funzione della sicurezza a bordo, ma quando ci sono gli ospiti a bordo sono loro che fanno il bagno nella bella baia, tu devi lavorare. Gli imbarchi per lavoro usualmente durano mesi. Non è per tutti.
E la passione per il mare che fine fa?
I primi tempi si è spinti dal desiderio di viaggiare e la passione per la vela, ma dopo qualche anno io ho iniziato a separare la passione dal lavoro. Ho scelto di veleggiare con gli amici e lavorare viaggiando in barca. Questo ti permette di essere più obiettiva: se a un certo punto capisci che quell’imbarco non fa per te, allora puoi scendere e cercare qualcosa che ti si addice di più, senza per questo sentire di tradire la tua passione.
Prima di imbarcarti per i mari del nord cosa facevi?
Dopo un imbarco veramente faticoso in Mediterraneo, mi dissi che non sarei più salita in barca se non per divertimento. Investii tutti i miei risparmi per aprire una società di garden e flower design a Roma con altri due amici. Un bel progetto, ma nel momento sbagliato. Erano i primi anni della crisi economica in Italia e tutti iniziavano a tagliare le spese per i beni accessori. Resistemmo qualche anno pagando tasse e collaboratori, ma non restava stipendio per noi soci. Alla chiusura della società avevo una gran voglia di tornare per mare.

Nel 2011 quindi ti imbarchi per sei mesi su Challenge ‘67 che fa charter per sportivi estremi e fotografi naturalisti alle Svalbard, un arcipelago del mar Glaciale Artico.
Perché ricominciare con un mare così difficile?
Mi succede spesso, dopo aver attraversato un periodo di grande dispendio energetico, di desiderare delle esperienze forti. Non tornavo in barca solo per la sicurezza di trovare un ingaggio pagato. Cercavo un contatto intenso con la natura e una nuova sfida.
Non ti chiedo i dettagli del viaggio perché li racconti già molto bene nel libro, ma mi tolgo alcune curiosità. Come ci si veste per navigare oltre il circolo polare artico?
All’inizio fu uno vero e proprio shock, ma con il tempo scoprii che il corpo riesce ad abituarsi al freddo. Il sangue si fa più liquido per circolare meglio e irrorare i tessuti. Durante la prima navigazione avevo tantissimi strati. Sulle gambe indossavo: calze, pantaloni e cerata. Ricordo che misi le scarpe da trekking al posto di quelle da vela. Rivalutai la vecchia canottiera di lana della nonna e aggiunsi poi due pile, due maglioni, giacca e cerata. Immagina l’impaccio per spostarsi. Non era sempre così però, nelle giornate di sole senza vento stavo in coperta anche solo con il pile. La differenza la fa il vento.
Oltre al freddo, quali grandi differenze ci sono tra navigare in Mediterraneo e navigare nei mari del nord?
Alle Svalbard non si può scendere a terra senza un fucile. A causa del rischio di imbattersi in animali pericolosi la legge vieta di scendere a terra a chi non sa sparare o senza una guida capace di farlo. Ho sofferto molto la reclusione sui quei 20 metri di barca senza poter scendere a terra per una passeggiata. Ecco l’origine del primo titolo che avevo pensato per il libro.
Un’altra grande differenza è la luce: d’estate il sole non tramonta mai e potresti navigare sempre. Nel nostro caso gli ospiti avevano una guida che organizzava le giornate; la navigazione si adattava alle loro esigenze. È capitato di dormire nelle ore diurne e scendere a terra nelle ore notturne. I pasti erano organizzati in funzione delle escursioni e non dell’orario.
Qual è stata la cosa più difficile da affrontare in questo viaggio?
Ho fatto fatica a navigare. Con tutti quegli strati di vestiti addosso la capacità di movimento è limitata. Ero abituata a muovermi in modo più agile e istintivo, mentre lì tutte le mosse vanno pensate in anticipo. Per esempio: togli i guanti, cazza la scotta – che magari è bagnata – asciugati la mano, riemetti il guanto. Tutto questo richiede un’attenzione molto elevata. Probabilmente è tipico dell’esplorazione di tutti i territori difficili: stare sempre all’erta perché non c’è grande margine di errore.

C’è una cosa che non ti aspettavi e che ti ha sorpresa?
Tutto era nuovo per me, ma sono rimasta piacevolmente stupita nel notare che questo stare all’erta ha acuito i miei sensi. La mia capacità di osservazione in un ambiente in cui tutto sembrava uniforme e bianco, si è amplificata e iniziai a vedere movimenti di animali che all’inizio non notavo assolutamente.
Esistono ancora luoghi incontaminati o l’uomo è ormai arrivato ovunque?
Per me esistono ancora. Ci sono aree delle Svalbard dove magari può essere passato un essere umano una volta, ma la natura è selvaggia e ancora forte.

Dopo le Svalbard la navigazione prevedeva l’ultimo mese verso Groenlandia e Islanda, ma i rapporti compromessi con il capitano olandese ti hanno portato a sbarcare prima. Come hai vissuto quel momento? Ti sei pentita?
Credo che nella mia vita errabonda mi abbia salvato spesso il grande rispetto verso quello che sento. Per quanto desiderassi percorrere quella rotta, mi chiesi se volevo davvero restare in un rapporto di lavoro incrinato che complicava le giornate di entrambi. No, non ne valeva la fatica. La vita riserva sempre mille alternative.
Com’è per una donna lavorare in barca?
Dipende molto dalla barca e dalla zona. Il mondo delle grandi barche che vivo io sta cambiando, ci sono molte più donne a bordo. Nell’ambiente francese, inglese, americano c’è molta apertura. In Italia si fa ancora fatica, ma sono stati fatti grandi passi avanti grazie alla visibilità del Team SCA, primo equipaggio completamente femminile alla Volvo Ocean Race. Quindi sì, nel 2020 va un po’ meglio, ma le donne devono ancora lottare per farsi spazio in un ambiente che per tanto tempo è stato prettamente maschile e dove spesso il maschilismo è inconsapevole.

Hai un ultimo consiglio per chi vuole iniziare a lavorare in barca?
Non affidare solo agli altri la propria sicurezza. Ho iniziato a rendermi conto di quanto in Italia la questione sia sottovalutata proprio con l’imbarco alle Svalbard. Le prime cose che il capitano mi insegnò una volta a bordo furono i piani di gestione delle emergenze. Se lui avesse avuto un problema, la sicurezza dell’equipaggio sarebbe stata compito mio.
Il Mediterraneo è un mare molto difficile, a volte più dell’oceano, e non capisco perché questo aspetto venga trascurato. Anche chi si imbarca per la prima volta come equipaggio, pur non essendo esperto di navigazione, deve farsi insegnare dove sono i giubbotti salvagente, i razzi di segnalazione o la zattera di salvataggio.
Quando sei rientrata dalle Svalbard cos’hai fatto?
Ero molto stanca e fisicamente molto provata. Per un po’ ebbi problemi alle mani e dovetti guarire da una potente sinusite. Durante quel periodo di pausa maturai la decisione di cercare imbarchi per luoghi stimolanti, in barche importanti e con incarichi prettamente in cucina. Ho dedicato del tempo a specializzarmi, a fare corsi di cucina con grandi professionisti. Ora faccio la chef a bordo, e vedremo cosa mi riserverà il futuro.
[Tutte le foto di questo articolo sono di Laura, che ringrazio per la telefonata da Palma di Maiorca e per avermi fatto letteralmente venire i brividi. Buon Vento.]