Marco Rossato è il primo velista paraplegico a fare il giro d’Italia in solitaria. Ha piani a lunghissimo termine e grandi progetti che realizza pezzo dopo pezzo. Fa tutto – come dice lui – da seduto. Dopo un incidente in moto a 27 anni, reinventa la sua vita attorno alla vela: dove prima c’erano barriere lui apre varchi per nuove possibilità.
Partiamo dall’inizio Marco, quando hai conosciuto la vela?
Come te sono vicentino, e sai che il nostro mare non è granché. Da piccoli si va a vedere Venezia e poco altro. In famiglia sono stato cresciuto in montagna: camminate e sci. A 24 anni ho avuto la fortuna di fare un viaggio a Cuba. Lì conobbi dei ragazzi che mi invitarono a uscire con loro in catamarano e così il mio battesimo della vela fu in Atlantico. Ne rimasi folgorato. Lungo il viaggio di ritorno già pensavo a come tornare. Io odio volare e decisi subito che sarei tornato ai Caraibi in barca a vela. Non so spiegarti perché ma già mi immaginavo in solitaria.
Un piano a lunghissimo termine.
Sapevo che non avevo l’esperienza e che c’era un bel po’ di mare da fare per realizzare quel sogno, ma non avevo fretta. Anche dopo l’incidente il sogno è rimasto lì.
Quando è successo l’incidente?
Il 9 ottobre 2001, avevo 27 anni e una grande passione per la moto. In una delle gallerie delle montagne vicentine la moto sbandò. Ne uscii paraplegico, cioè senza l’uso delle gambe. Ricordo che in ospedale, quando la diagnosi non era ancora definita, già cercavo uno sport che mi desse la possibilità di muovermi e incanalare le energie.
Il percorso per riacquisire più autonomia possibile durò un anno e mezzo. Con la possibilità di tornare a guidare il mio raggio d’azione si ampliò e contattai la scuola vela di Sabaudia. Lì avevano varato da pochi mesi uno Sloop di 12 metri completamente accessibile e conducibile anche da una persona in carrozzina. Ho iniziato così.

Con loro ho fatto tanta scuola vela, accumulato esperienza e sono diventato istruttore. Credo di aver portato in barca qualche centinaio di persone con disabilità, inizialmente con una patologia pari alla mia e poi ho cercato di abbracciarne il più possibile.
Da quanti anni insegni?
Più di 13. Gli anni sono passati in fretta e non ci ho fatto caso fino a un passo dai 40, quando ha cominciato a ronzarmi in testa una frase che non riuscivo a scacciare: o adesso o mai più. Allora ho riaperto il cassetto dove avevo messo il sogno di attraversare l’Atlantico e ho cominciato a lavorarci sopra seriamente.

I fatidici 40 mettono tutti davanti al pensiero del futuro.
Sì, credo che a tutti capiti di pensare a come si invecchierà. Io mi sono detto che in quel momento il mio corpo funzionava, ma non sapevo cosa aspettarmi da lì a 10 anni. Avrò ancora la forza per inseguire questo sogno? Ho iniziato a fare un business plan, a cercare di capire che barca potevo usare, a riflettere tecnicamente quali cose potevo fare e quali no.
E cos’hai concluso?
Il progetto Atlantico era troppo oneroso per essere realizzato subito, ma volevo comunque cimentarmi in un’impresa che mi mettesse alla prova e che mi avvicinasse al sogno. Per allenarmi a stare per mare mi sono dato un altro obiettivo: volevo essere il primo velista paraplegico a fare il giro d’Italia in solitaria. Una volta deciso l’obiettivo mi sono buttato sui dettagli per dargli un senso.
Non era abbastanza il senso che aveva per te?
Per me era importante, ma vista la risonanza che avrebbe avuto, volevo usarlo come uno strumento di comunicazione. Lungo il percorso ho deciso di mappare l’accessibilità dei porti italiani e poi rendere le informazioni disponibili a tutti quelli che ne hanno bisogno. Volevo anche portare a tutti gli appuntamenti pubblici che mi aspettavano la convenzione ONU dei diritti per le persone disabili, portata in Italia da Andrea Stella.
Navigare entro le 6 miglia inoltre era un vincolo forte per attirare l’attenzione degli enti preposti alle regole per la patente nautica. Noi disabili, in Italia, siamo abilitati al comando, ma non possiamo andare in barca da soli. Nella nostra patente viene scritto che dobbiamo avere un normodotato a bordo, non importa con che grado di esperienza. Questa regola non ho voluto accettarla.

Vuoi dirmi che non hai la patente nautica?
Ancora no. Per fare il giro d’Italia sono rimasto entro le 6 miglia, come previsto dalla legge.
Quindi puoi guidare l’auto da solo, ma non potresti portare una barca da solo.
Pensa che ho amici che sono piloti d’aereo o si buttano con il parapendio da soli. Non voglio farla semplice, ci sono delle difficoltà tecniche da affrontare, ma le regole che ci sono oggi sono state stilate 20 anni fa, quando le barche da diporto accessibili erano poche e il tema disabilità ignorato. Oggi abbiamo molti accorgimenti che ci permettono di essere autonomi.
So che ci sono diversi tipi di disabilità che vanno trattati in modo diverso. Il messaggio non è: visto che Marco ce l’ha fatta, diamo la patente a tutti. Il mio scopo è quello di sollevare il problema, fare in modo che le visite mediche siano specifiche in funzione della patologia e che magari si pensi a diversi livelli di autorizzazioni.
C’è nessun altro paese che si pone questi quesiti?
Eh, con barca battente bandiera straniera sarebbe tutto più semplice. Andrei a sottostare a leggi di un altro paese e aggirerei l’ostacolo. Ma io sono un testone e non voglio togliere il mio amato tricolore dalla barca. Inoltre sono convinto che se tutti scegliessimo sempre la strada più facile le cose non cambierebbero mai. Quando ho deciso di fare questo percorso volevo attirare l’attenzione sulla questione. So che non si può avere una regola nuova domani mattina, ma dobbiamo iniziare a parlarne.
Quando sei partito da Venezia?
Sono partito il 22 aprile 2018 e sono arrivato a Genova il 22 settembre: sei mesi, contando anche alcune settimane di stop in agosto. Ho diviso il viaggio in 60 tappe e in ciascuna di queste c’erano incontri con le autorità, nelle sezioni della Lega Navale Italiana con base nautica, nei centri di riabilitazione o nelle scuole. Oltre a tutte queste attività ufficiali, per me il viaggio è stato un vero banco di prova per capire come mi comportavo da solo in mare.

Com’è andata?
Ho avuto dei momenti brutti e dei momenti belli.
Ti va di raccontarne un paio?
Con i momenti brutti ho iniziato subito, già nella tratta Chioggia – Ravenna. Ho sbagliato a prendermela comoda durante il giorno e sono arrivato al porto all’imbrunire, quando è montato lo scirocco e c’erano onde di 2-3 metri. Con una barca di 8 metri diventano impennate e discese quasi verticali. A 500 metri dalla costa, sento uno strappo allo specchio di poppa dov’era attaccato il motore. Non l’ho perso in mare perché era assicurato con una cima di rispetto, ma in quel momento comunque ero senza. A 500 metri dalla scogliera non è una bella situazione.
Come hai reagito?
È un’esperienza che mi sarei volentieri evitato, ma al tempo stesso sono felice di averla fatta, perché ho dimostrato di aver fatto la manovra che avrebbe fatto qualsiasi altro bravo marinaio. Ho aperto immediatamente il fiocco, ho poggiato e puntato al largo. Una volta a distanza di sicurezza ho chiamato lo staff che mi aspettava al porto e mi hanno trainato con un gommone.
L’episodio più emozionante invece?
Ce ne sono stati tanti, faccio fatica a scegliere. Tante persone mi hanno lasciato ricordi davvero bellissimi. Proprio dopo il faticoso arrivo a Ravenna ho incontrato un ragazzo con una disabilità molto grave, che amava molto il mare. Non poteva parlare e mi diede un biglietto in cui scrisse che leggere i miei post di aggiornamento durante la navigazione era per lui come essere in barca con me. Ecco, è stata una grande carica e il segnale che stavo facendo qualcosa non solo per me, ma anche per qualcun altro.
Un altro momento che ricordo con grande piacere è stato un tratto di navigazione in Adriatico. Dopo giorni di stress avevo trovato delle condizioni ottimali per navigare e mi sono concesso di accendere la radio e la musica era perfetta. Lì ho davvero amato il contatto con l’onda e il vento; ho amato persino la barca.

Non avevi un bel rapporto con Foxy Lady?
Con lei è stato un rapporto di amore e odio. Foxy Lady è un trimarano – Dragonfly 800 Swing Wing di produzione danese – ed è fatta per navigare più sui laghi del nord Europa che nel Mediterraneo. All’inizio ho scelto il trimarano perché è più veloce e speravo di ottimizzare gli spostamenti. Quando sono partito però non era tutto a punto e lungo il percorso ne sono successe di tutti i colori. Ho navigato sempre con l’ansia del prossimo inconveniente. Alla fine però i mezzi che avevo erano quelli, avevo voglia di uscire in mare e l’ho fatto. Niente mi avrebbe tenuto a terra.
E Muttley, il tuo cane, quando hai deciso di portarlo con te?
Io e lui viviamo 24 ore su 24 insieme. Non ci sarebbe stato altro modo di affrontare questo viaggio. Lui odia l’acqua, non farà mai il bagno spontaneamente, ma in barca è salito senza problemi. Per me è stato come avere una persona, un ottimo compagno di viaggio. Nei momenti emotivamente più duri è stato importante che fosse con me: lo guardavo e tenevo duro più per lui che per me.

Ora cos’hai in programma?
A fine febbraio 2020 parto di nuovo. Questa volta il giro d’Italia è doppio, il progetto si chiama Tornavento2020. Partirò da Viareggio, arriverò a Venezia e poi di nuovo a Genova. Stavolta però non navigherò da solo: porterò con me ragazzi con disabilità, che sotto il mio comando gestiranno le manovre. Al rientro a Genova saliranno con me alcuni bambini ricoverati all’ospedale pediatrico Gaslini.
Quanto complicato è attrezzare una barca per le tue esigenze?
Sul trimarano che ho usato io è stato semplice: aveva il tambuccio già abbastanza largo e le manovre erano già tutte rinviate a pozzetto. Io mi calavo dentro con il paranco e una volta giù ero autonomo, senza carrozzina, mi spostavo a braccia.
La barca per il progetto Tornavento2020 invece avrà una passerella per salire a bordo e una pedana per andare sottocoperta. Lo spazio più difficile da progettare in generale è il bagno. A volerla dire tutta, ho tanti amici velisti senza disabilità che a causa dell’età fanno fatica a usare i bagni standard delle barche. Sarebbe bello che i cantieri navali capissero che non siamo tutti belli fighi e prestanti.

Che benefici vedi nell’andare per mare per le persone con disabilità?
Autonomia e autostima. Chi viene in barca con me non ha un istruttore in piedi che li aiuta. Non è come in terraferma, quando devono prendere qualcosa e qualcuno provvede per loro. Con me devono arrangiarsi perché anch’io sono seduto, fanno molta più fatica, non mi faccio fregare. Non è cattiveria: se chiedo di fare qualcosa è perché so che lo possono fare. Così hanno la possibilità di recuperare quell’autonomia che in terra viene inibita.
In che senso inibita?
Pensa a tutte le volte che, quando devo passare da una porta, qualcuno per gentilezza, mi passa davanti e la tiene aperta. Da una parte capisco la sensibilità di chi compie il gesto, ma se tieni conto che si ripete per tante altre cose durante la giornata, toglie autonomia. Già una persona in carrozzina si muove poco, se togliamo altro spazio la qualità di vita peggiora. Quindi: prima di tutto autonomia e con questa arriva anche l’autostima.
Capire queste cose serve anche a chi sta vicino alle persone con disabilità.
Sì esatto. Ora non voglio insegnare a fare i genitori ma, almeno quando i ragazzi sono con me, mi piace che provino ad arrangiarsi. Vedo che poi ne giovano tutti.
Chi vuole saperne di più e dare un contributo come può fare?
Per i dettagli del viaggio è tutto raccontato nel libro “Cambio rotta. Io e Muttley 1648 miglia sotto costa in cerca di porti senza barriere”. I proventi vanno a finanziare il progetto Tornavento2020. Per il resto c’è il sito dell’Associazione I Timonieri Sbandati.
E l’Atlantico?
Non l’ho scordato. Una cosa alla volta.

Tutte le foto di questo articolo sono di Marco Rossato che ringrazio per l’entusiasmo con cui ha partecipato all’intervista e per l’umorismo con cui racconta avventure e disavventure.