Come si può conciliare il sogno di partire per grandi navigazioni con un lavoro impegnativo e una famiglia con cui si condivide la quotidianità? Andrea Cestari prova a tenere insieme tutti i pezzi del puzzle e in questa intervista ci racconta in breve la sua avventura Atlantica. Se ti interessa la versione completa, la trovi nel suo ultimo libro Parentesi Atlantica, scritto per il Frangente.
Quando inizia questa avventura Andrea?
Sono nato a Milano da una famiglia dove non c’erano velisti. Credo di aver iniziato a sognare le avventure per mare quando mia mamma cercava di placare la mia esuberanza in spiaggia mettendomi in punizione dentro la barchetta in secca di un pescatore. Io ci stavo benissimo.
Ho frequentato il mio primo corso di vela a 16 anni e da lì in poi ho iniziato a frequentare i circoli velici sul Lago d’Iseo. Con mio fratello ho gareggiato anche sui 420 e sui 470. Con il tempo sono diventato skipper, mi sono laureato in medicina e sposato.
Tra i libri che hai scritto vedo che c’è anche il titolo Bimbi a Bordo. Come hai intrecciato la passione per la navigazione con la famiglia che cresceva?
I miei figli sono sempre andati in barca, fin da quando erano nel pancione della mamma. Forse eravamo giovani e un po’ incoscienti, ma partivamo tutti e cinque (più il cane) e passavamo anche un mese in giro per il Tirreno. Finché erano piccoli la navigazione era adattata alle loro esigenze: lunghe navigazioni di notte e tutti i giorni tanta spiaggia per farli giocare. Ma siamo sempre stati bene e anche loro si sono appassionati. Alcuni hanno continuato a veleggiare per conto loro e la barca resta un punto d’incontro per la famiglia.

Quando hai iniziato a pensare alle lunghe rotte?
Da sempre! Come tantissimi velisti mi sono trovato a fantasticare sui racconti dei grandi navigatori come Moitessier. Ne ero rimasto così affascinato da ritrovarmi a pensare spesso su quale fosse il modo migliore per realizzare il sogno di una grande traversata oceanica.
Quanti “danni” hanno fatto quei libri?
Bisogna inserirli nella loro epoca. Sono storie bellissime e potevano essere d’ispirazione negli anni ‘60 -’70. Ora non si può più sperare di essere accolti in porto dal console o di trovare un lavoro qualsiasi all’approdo e poi ripartire. Se non si hanno le risorse finanziarie per garantirsi una vita dignitosa il sogno fallisce miseramente. L’ho visto con i miei occhi ai Caraibi dove ci sono barche fatiscenti che non lasceranno più il molo.
Quando hai capito che era arrivato il momento giusto per realizzare il tuo sogno?
Complice l’aver compiuto 50 anni, il periodo Covid e i figli ormai indipendenti, ho capito che era ora di ravvivare il fuoco sotto a quel desiderio sopito ma mai spento. Ho deciso di far costruire Macalippo2, una barca in alluminio pensata per le lunghe navigazioni da un cantiere sulla costa atlantica francese e di dare inizio alla mia avventura direttamente da lì.

Il tema principale del tuo ultimo libro Parentesi Atlantica è proprio la preparazione della traversata. Come ti sei organizzato con il lavoro?
Se non si vuole diventare marinai a tempo pieno, bisogna organizzarsi in anticipo e preparare la barca almeno un anno prima. Io sono partito da Les Sables-d’Olonne in estate. Per chi salpa dall’Italia si possono sfruttare i ponti primaverili e le vacanze estive per navigare fino alle Canarie. Poi si aspetta la pausa natalizia per il grande salto. Io ho approfittato della prima navigazione verso le Canarie anche per testare l’equipaggio di amici che avevo coinvolto. È stato importante per capire chi aveva voglia di proseguire e chi no.
Nel libro parli di due grandi preoccupazioni per i marinai che si preparano alla rotta atlantica. Il primo è il timore di un incontro ravvicinato con le orche. Esiste una strategia per ridurre il rischio?
Esistono siti e gruppi social in cui si possono trovare le segnalazioni degli ultimi incontri o avvistamenti, per cercare di tenersene alla larga, ma di fatto nessun sistema si è dimostrato efficace al 100%. Noi siamo stati fortunati e non le abbiamo incontrate.
La seconda preoccupazione invece è diventata realtà quando siete stati speronati da una barca che trasportava migranti.
Le rotte tra l’Africa occidentale e la Canarie sono frequentate da migranti che vogliono raggiungere il territorio europeo. Noi siamo stati attaccati a poche ore dalla partenza, circa 40 miglia a sud de La Gomera. Una barca a motore dal riconoscibile stile africano si è avvicinata: le persone urlavano in una lingua per noi incomprensibile e facevano cenni per chiedere cibo e acqua. Abbiamo iniziato a passargli qualcosa ma era più una strategia per capire chi fossimo.
Una volta realizzato che eravamo inoffensivi hanno iniziato a speronarci e ad ogni colpo qualcuno saliva a bordo. In quel momento abbiamo pensato che fossero dei pirati, che volessero la barca e che la nostra vita sarebbe presto finita in modo violento.
Per fortuna invece le persone salite a bordo non hanno avuto atteggiamenti aggressivi. Non so se la barca degli scafisti abbia avuto dei problemi al motore o se avesse già un altro obiettivo, ma ne fecero salire a bordo 8 e poi si fermarono. Macalippo2 aveva avuto solo danni estetici ma la tensione a bordo restava alta perché nessuno di noi sapeva quali fossero le intenzioni dei nuovi passeggeri.

Difficile prepararsi a gestire una situazione di questo tipo.
Dopo i primi momenti di incertezza ho deciso di lanciare un MAYDAY. Seguendo le indicazioni della guardia costiera abbiamo invertito la rotta e bolinato verso La Gomera. Un elicottero ci ha scortato fino al tramonto, poi abbiamo aspettato una barca di salvataggio da Tenerife che ci ha permesso di gestire il trasbordo senza rientrare al porto. Credo che se avessimo attraccato a La Gomera non saremmo mai più ripartiti. L’esperienza è stata traumatizzante per tutti.
L’oceano vi ha poi ricompensato con una navigazione più tranquilla.
I primi giorni ci è rimasta addosso la paura. Con il passare del tempo e l’aumentare della distanza dalla costa ci siamo rilassati. Abbiamo sempre avuto alisei tra i 15 e i 30 nodi, incontrato diversi groppi, ma niente che non sapessimo gestire.

E il “dopo traversata” come funziona?
I costi per tenere la barca in Martinica sono infinitamente più bassi di qualsiasi marina italiano. L’opzione di tenerla lì qualche anno è davvero interessante: con i soldi risparmiati si può volare ai Caraibi un paio di volte l’anno approfittando dei collegamenti low cost tra Francia e i territori d’oltremare. Quando poi si decide di riportarla in Italia ci sono diverse opzioni. Quella più adatta alle mie esigenze è stata il trasporto via nave.
Hai qualche altro progetto in mente?
Ora la barca è in Sardegna. Il Tirreno permette di combinare sia lunghe navigazioni che esplorazioni di isole e arcipelaghi. Mi piacerebbe navigarlo con calma, magari fuori stagione.
Come si torna alla quotidianità dopo un’esperienza in oceano.
Si cambia atteggiamento, si cambia sguardo. Gli spazi immensi, la potenza della natura, l’infinità di stelle del cielo notturno fanno capire quanto piccolo è il nostro posto nel mondo e quanto poco basta per vivere sereni.