Nell’autunno del 2019 Elisa decide di licenziarsi dal suo amato lavoro per essere più padrona della suoi tempi. Si imbarca e sperimenta la navigazione oceanica: tocca con mano cosa significa libertà e fa i conti con la difficoltà di cambiare ritmo. Se questa ti sembra una decisione difficile da prendere aspetta di leggere cosa succede quando ci si mette di mezzo una pandemia.
Elisa, prima di imbarcarti che cosa facevi?
Sono di Bologna, ho studiato medicina e mi sono specializzata in medicina interna. Ho fatto esperienze diverse e negli ultimi cinque anni ho lavorato a Pesaro. Prima ero in pronto soccorso e poi sono diventata responsabile del reparto di medicina d’urgenza. Per me la medicina è sempre stata – ed è tuttora – una grande passione, un lavoro che ho fatto, faccio e farò volentieri.
E quindi perché interrompere la carriera?
È difficile da riassumere, non c’è un episodio in particolare, però è vero quando dicono che “abbiamo solo due vite e la seconda inizia quando capisci che ne abbiamo una sola”.
Mi sono accorta che non avevo mai tempo per me. Il mio stupendo lavoro con il tempo subisce quello che succede a tanti mestieri: le azioni diventano meccaniche e ripetitive, facevo fatica a metterci la mia personalità. Ero assunta a tempo indeterminato e ho visto davanti a me altri venticinque anni di lavoro tutti uguali. Se volevo avere altre occasioni dovevo crearmele.

Come hai scoperto la vela?
Un paio d’anni fa un’amica mi propose un corso di avvicinamento alla vela. All’inizio non ero sicura di avere tempo, ma sono una sportiva e mi piace imparare cose nuove; inoltre avevo bisogno di un appuntamento che mi costringesse a staccare dalla routine della vita in ospedale. Così accettai. Insomma, all’inizio era un pretesto per rilassarmi e distogliere il pensiero dal lavoro. Il corso era semplice: 5 lezioni teoriche e 5 uscite in mare. Tra gli istruttori c’era Renato – per tutti René – ci siamo conosciuti e innamorati.
E ti ha chiesto subito di partire?
No, non subito. Anche lui arrivava da una scelta radicale di cambio vita: prima lavorava in un negozio di vernici. Pochi mesi dopo che ci siamo conosciuti ha accettato di diventare il comandante di una bellissima barca d’epoca e condurla nelle regate Panerai, la prima delle quali è la Panerai Transat Classique, la traversata del sud Atlantico. È rimasto imbarcato quasi un anno durante il quale ci siamo visti appena uno dei due aveva tempo di raggiungere l’altro.

Nel frattempo io ho maturato la mia decisione di cambiare ritmi. Volevo avere più tempo per me e trovare un nuovo equilibrio tra vita professionale e personale. Mi sono licenziata sapendo di avere molte competenze solide, che potevano essere valorizzate anche in altri modi.
Quindi nessun rancore.
Nel mio caso no. So che per molte persone il licenziamento arriva come un atto di protesta contro l’impiego che si lascia, ma non è il mio caso. Sono in ottimi rapporti con i colleghi dell’ospedale di Pesaro, siamo tutt’ora amici e ci sentiamo sempre. Per me non è stato semplice lasciarli. Mi sono licenziata per fare un progetto su me stessa, valutare altre dimensioni lavorative. Per un medico l’ospedale non è l’unica soluzione: è un lavoro che si può fare in tutto il mondo e ci sono tantissime dimensioni per poterlo svolgere.
Sapevi già che cosa avresti fatto?
Avevo tante idee ma non un progetto preciso. Prima di rimettermi all’opera ho sfruttato l’occasione di partire con René per fare un’esperienza di navigazione lunga in barca. Il mio ultimo giorno di lavoro è stato il 21 di ottobre; il 23 abbiamo preso un aereo per Lanzarote con l’idea di cercare un imbarco per la traversata atlantica.

In barcastop?
Sì esatto. Avevamo del tempo a disposizione, settimane, forse mesi, non avevamo deciso. Prima abbiamo navigato un po’ alle Canarie e poi, grazie a un contatto di René, abbiamo trovato imbarco per la traversata. Tappa a Capoverde e poi direzione Martinica. Un’esperienza incredibile. Ai Caraibi abbiamo colto qualche occasione per navigare tra Antigua e Santo Domingo e poi siamo saltati a Cuba dove siamo rimasti 3 settimane. Lì le nostre strade si sono divise.
Che direzioni avete preso?
René ha colto l’occasione per un imbarco verso il Messico. Io avevo accettato una proposta per lavorare in Australia in Formula 1, come medico durante gli eventi sportivi. Era l’inizio di marzo di quest’anno, gli spostamenti iniziavano ad essere difficili, ma non ancora impossibili. Sono rimasta in Australia 10 giorni, ma l’epidemia iniziava a preoccupare e il gran premio per cui ero stata ingaggiata fu annullato.

Nel frattempo in Italia la situazione si complicava.
Ero rimasta nelle chat di lavoro e la messaggistica era di fuoco. Leggevo i messaggi dei colleghi, chiedevo come stavano, ogni tanto chiamavo. In uno scambio con il primario di medicina d’urgenza, mio amico da sempre, chiesi: “Avete bisogno?”, lui rispose: “Secondo te?”. Non ho avuto bisogno di pensarci su. Il 16 marzo sono partita dall’Australia, il 17 ero in italia il 18 ero in ospedale a Pesaro. Ero stata operativa fino a pochi mesi prima, potevo dare una mano da subito senza bisogno di formazione. Sono rimasta per tre mesi e ho smesso a metà giugno.
Com’è stato passare dai ritmi del mare a quelli dell’ospedale?
Il cambio di ritmo non è stato facile in nessuna delle due occasioni. Anche il primo passaggio – dai ritmi del mio lavoro ai ritmi della navigazione – non è stato semplice. Sono molto attiva, sportiva, mi piace lavorare, fare cose pratiche. Il primo mese di barca mi è servito tutto per abituarmi, come una specie di jet leg. Lo stesso è successo quando sono tornata. Avevo la mente completamente libera e mi sono tuffata in un frullatore senza coperchio. Non era il ritmo sostenuto che già conoscevo, ma un’emergenza che nessuno aveva mai visto. All’inizio ero molto motivata e riposata, ma dopo 2-3 settimane ho accusato il colpo. Fortunatamente l’organismo si adatta in fretta.

Riprenderete il viaggio?
Per ora ho ricominciato con i miei ingaggi in Formula 1, al momento sono in Austria. Quest’estate René lavorerà nel mediterraneo. Entrambi amiamo il nostro lavoro e, in ogni caso, abbiamo bisogno di qualche entrata prima di rimetterci in viaggio. Progetti a lungo termine non ci sono, sicuramente abbiamo un viaggio interrotto da riprendere, ma per dove non si sa. Abbiamo una lista di posti che ci piacerebbe vedere, chissà.
Avete una barca vostra o il progetto di vivere in barca?
Non abbiamo mai scartato nulla, ma al momento non abbiamo una barca nostra. Prendiamo le occasioni che ci capitano giorno per giorno, tenendoci sempre un margine di sicurezza. Personalmente non sento il bisogno di vivere in barca per cambiare vita. Gli insegnamenti che mi ha dato la barca me li porto dentro sempre, anche a terra. Non mi fa differenza dormire nel mio letto o in cuccetta.
Quindi non è la barca a farti sentire libera?
La barca mi ha aperto i confini, non ho più limiti imposti dagli altri ma solo le regole che mi do io. Sono libera perché posso scegliere, sta a me decidere fino a dove arrivare. Il cambio di vita – per me – non si realizza stando fisicamente in barca, ma nella flessibilità di pensiero che ho acquisito, nella capacità di accettare un certo grado di incertezza sul futuro e sfruttare al meglio le possibilità che ho. Potrei anche vivere in barca, ma non per questo mi precluderei un’esperienza di lavoro interessante in qualsiasi parte del mondo se ci fosse l’occasione. Quindi non è stare in barca che mi rende libera, ma l’approccio alla vita che ho imparato navigando. La barca non è il fine, ma il mezzo per vivere la vita in un modo straordinario.
Le foto di questo articolo sono di Elisa, che ringrazio di aver trovato il tempo per me in una pausa in corsia. Buon vento!