Disalberare in Oceano è una di quelle scene che si vedono nei film, non pensi che possa davvero succedere, soprattutto quando sei imbarcato tu.
Marina ci racconta cosa è successo durante la regata Azzorre and Back e come lei e l’armatrice Jayne hanno affrontato l’imprevisto.
Ciao Marina, prima della tua (dis)avventura in Atlantico, mi racconti un po’ come ti sei appassionata alla vela?
Sono di Catania e quindi nata e cresciuta di fronte al mare. A 16 anni ho iniziato con il windsurf. Lo usavo anche per piccole navigazioni lungo la costa. Il risultato a volte era che non avevo più il vento per il rientro e rimanevo bloccata da qualche parte. Ma ho sempre trovato il modo per tornare. Poi ho fatto qualche corso sulle derive e alla fine nel 2011 ho preso la patente nautica. Da lì ho cominciato a fare uscite e regate con gli amici. Mi piace anche navigare da sola. È la mia valvola di sfogo: quando sono con la mia barca, il mare e il vento io mi ricarico.
Hai una barca tua?
Cinque anni fa ho comprato Pilgrim: 9 metri in compensato marino su base di un progetto francese. È tutta in legno e ha bisogno di continui lavori di manutenzione, ma ho imparato a fare molte cose anche da sola. All’inizio il fai da te era soprattutto una questione di risparmio, ma con il tempo mi sono accorta che più conosco la barca, anche nei dettagli di com’è costruita, meglio navigo, soprattutto in caso di imprevisti.
Le tue rotte più belle finora?
Nel 2015 ho usato un mese di ferie per fare il giro della Sicilia a tappe e l’anno dopo ho preso sei mesi di aspettativa e sono partita in solitaria per la Grecia. Quando sei solo devi decidere tutto: guardare il meteo, tracciare la rotta, valutare il mare e le energie che hai. Puoi fare tutti i corsi che vuoi – e sono utili – ma alla fine il mare e la barca sono gli insegnanti più severi.
Nel 2017 ho realizzato uno dei miei sogni: partecipare alla Rolex Middle Sea Race, una regata che parte da Malta, fa il giro della Sicilia all’esterno delle isole minori e rientra a Malta. In quell’occasione ho conosciuto Jayne, un’armatrice inglese che faceva parte di un altro equipaggio di cinque donne.

Abbiamo fatto amicizia e siamo rimaste in contatto. L’anno successivo mi ha proposto di fare con lei la Yachting Monthly Triangle Race: un triangolo tra Inghilterra, Irlanda e Bretagna per equipaggi da due persone, 650 miglia in 3 tappe. Era giugno, ma per me fuori dal Mediterraneo è sempre inverno. Mi prendevano in giro per come mi coprivo: strati di pile, doppie calze, cerotti riscaldanti per la navigazione notturna.
Arriviamo a giugno di quest’anno…
Jayne mi invita a partecipare con lei alla AZAB – Azzorre and Back – che è divisa in due tappe: Falmouth (UK) – Ponta Delgada (Azzorre) e rientro, due tratte da 1.200 miglia ciascuna. Per ciascuna servono dai 7 agli 11 giorni. Il piano era di fare l’andata insieme mentre Jayne avrebbe poi fatto il ritorno da sola, il regolamento lo permetteva. Il piano però è saltato.
Cos’è successo?
Dopo una settimana di navigazione abbiamo disalberato. È una di quelle situazioni che vedi nei film, ma non immagini mai che possa succedere a te.

Racconta dall’inizio…
La navigazione era iniziata bene, anche se i primi due giorni sono stati duri per me. L’onda dell’Atlantico era nuova, ho sofferto il mal di mare e ho fatto fatica a entrare nel ritmo delle guardie. Dal terzo giorno in poi è andata meglio. Abbiamo avuto un giorno di vento forte, con picchi di 35-40 nodi e onde fino a 3 metri, ma la navigazione procedeva tranquilla. Una notte, quando stavo smontando dal mio turno – mi ero già tolta la cerata e non vedevo l’ora di mettermi a dormire – ho sentito un gran rumore e poi una botta sulla coperta della barca. Subito dopo la voce di Jayne: Shit! dismast!
Immagino non resti molto altro da dire in certi casi.
Pensavo di non aver capito perché poco prima ero in pozzetto e andava tutto bene. Ho messo la testa fuori ed era vero, l’albero non c’era più e la barca si era praticamente fermata. È successo così, in condizioni meteo tranquille, senza nessun segnale di preavviso. Non si sa bene l’origine del danno, pensiamo a un difetto di fabbricazione che non ha retto le sollecitazioni accumulate nel tempo.
Superata l’incredulità cosa avete fatto?
Prima abbiamo lanciato il mayday con la radio portatile, perché l’antenna che stava sull’albero non c’era più. La portata però è solo di qualche miglio. Nel dubbio che nessuno ci avesse sentito abbiamo usato il telefono satellitare per chiamare il padre di Jayne e dargli istruzioni per informare la guardia costiera di Falmouth. Poi ci siamo messe al lavoro.
Da cosa avete iniziato?
Abbiamo preso un coltello ciascuna e le cesoie grandi e abbiamo iniziato a tagliare le sartie, i cavi elettrici e tutte le cime che passano per l’albero. Volevamo provare a salvare il boma o una vela ma – quando si è rotto il vang – l’albero ha iniziato a sbattere sulla coperta e temevamo di fare danni peggiori. Quindi ci siamo sbrigate a tagliare tutto. Circa un’ora dopo, alla luce delle pile frontali, ci siamo fermate a guardare l’albero affondare e portarsi giù in un attimo le vele e la bandierina di cortesia italiana. È stata una scena pazzesca che non dimenticherò mai.

Nel frattempo una barca vicina aveva sentito il mayday alla radio e ci aveva richiamato, avvisando che stava tornando indietro. Con tono molto tranquillo – tipico inglese – chiesero: Are you sinking? [state affondando?] Non avevamo falle e quindi rimasero a distanza di sicurezza, pronti ad avvicinarsi se avessimo avuto bisogno.
Ok, siete sane e salve ma senza vele.
Dopo aver controllato che non ci fossero cime in acqua e messo in ordine il pozzetto abbiamo avviato il motore. Nel frattempo la guardia costiera delle Azzorre ci aveva telefonato per sincerarsi della situazione. Stavamo bene, il traguardo della regata era comunque il posto più vicino da raggiungere, ma non avevamo gasolio sufficiente per arrivare a São Miguel a motore. Contattarono una nave che il giorno successivo si sarebbe avvicinata per darci gasolio.
Nave vicino a barca a vela non suona mai bene.
Iniziammo a preoccuparci quando la barca che ci faceva da da ponte radio con la nave, ci riferì che stavano preparando per noi 200 litri di gasolio. Ne chiedemmo al massimo 50, con 200 litri ci avrebbero affondato!
Ora… immagina una una porta container di 330 metri (MSC Rachele) che affianca una barca a vela di 11 metri. Al momento di mettere i parabordi ci veniva quasi da ridere. Ci hanno lanciato una cima che siamo riuscite ad afferrare e assicurare a un winch, con sottofondo di applausi di incoraggiamento da parte di tutto l’equipaggio affacciato a godersi lo spettacolo. Hanno poi gettato in mare 4 taniche piene per metà che avevano già legato alla stessa cima e ci siamo finalmente allontanate per recuperarle. Tirate su le taniche, il comandante ci ha augurato buona fortuna, dato due colpi di sirena e continuato sulla rotta per New York.


Quindi tutto a posto?
Quasi… La barca senza albero si muoveva tantissimo, al limite del sopportabile. Per colpa della nausea io non avevo più mangiato. Avevamo bisogno di un armo di fortuna per stabilizzarla. Avevamo due tangoni, e li abbiamo usati per fissare a prua la randa di cappa.
La randa di cappa è una vela da tempesta, obbligatoria a bordo in queste regate. Se strappi la vela principale questa è più pesante e resistente. Il nuovo armo ci ha stabilizzato e – grazie al colore arancione – ci ha anche reso più visibili.

Come sono stati gli ultimi giorni?
Gli ultimi tre giorni sono stati di navigazione a motore con un clima più mite. Verso la fine abbiamo incontrato anche tantissimi delfini. Ci siamo preparate all’arrivo issando la bandiera di cortesia del Portogallo nel nostro armo di fortuna: è stata molto apprezzata.
Gli organizzatori ci aspettavano per darci indicazioni via radio e gli altri partecipanti alla regata ci hanno accolto sul pontile con delle birre. Il bello di queste regate è che la sfida è con se stessi; tra i partecipanti c’è solidarietà.
Con che spirito siete arrivate?
Eravamo molto soddisfatte di come avevamo gestito la situazione, anche se il pensiero delle spese e le difficoltà da affrontare per sistemare la barca lasciava l’amaro in bocca. Comunque ripensandoci la cosa più evidente è che non ci siamo fatte nemmeno un graffio e abbiamo messo in pratica tutto quello che avevamo solo studiato. Di sicuro ora abbiamo molta più fiducia nelle nostre capacità. Non si può scegliere di fare un’esperienza così, ma è stata davvero senza prezzo. Questa avventura ci ha anche confermato che il tempo impiegato nella preparazione personale, della barca, degli attrezzi e dispositivi di sicurezza non è mai tempo perso. In mare tutto può succedere.

Quanto è stato importante essere in due?
Essere in due ci ha permesso di viverla nel miglior modo possibile, dal punto di vista fisico e psicologico. Ci siamo confessate più tardi che nel momento della rottura avevamo entrambe fatto gli stessi pensieri: focalizzazione su dov’era la zattera, come fare a salirci, quali erano le cose fondamentali da portare via. Eravamo entrambe pronte al peggio, ma senza panico.
Il tuo racconto ha come protagoniste armatrici ed equipaggi femminili: è la vela inglese più paritaria o è solo questione di incontri fortunati?
In effetti in mondo della vela è per la maggior parte maschile e anche un po’ maschilista, una donna fa più fatica a trovare imbarco, soprattutto quando si tratta di regate lunghe. Da quello che ho visto, la situazione inglese non è molto diversa. Da armatrice, nella scelta dell’equipaggio preferisco dare la precedenza alle donne per offrire un’opportunità che è più difficile da ottenere. Anche Jayne la pensa come me e questo è uno dei motivi per cui mi ha proposto di regatare con lei.

Tutte le foto di questo articolo sono di Marina e Jayne che ringrazio per aver condiviso gli insegnamenti di questa avventura. Buon vento ragazze!