Musicista, ristoratore, ma soprattutto viaggiatore: a 40 anni Gianluca si sente incastrato in una vita che non va come desidera e per schiarirsi le idee parte per una traversata oceanica. Ci racconta cosa è successo là, in mezzo all’Oceano, dove non c’è niente da fare e niente da vedere.
Europa, Sud America, Sud Africa: non avrò tempo di farti domande su tutti i tuoi viaggi via terra, quindi inizio direttamente dalla vela. Quando ti sei appassionato?
Da piccolo mio padre mi fece fare le prime esperienze sulle derive, ma quell’aspetto molto tecnico dell’andare per mare non mi conquistò e crescendo mi interessai ad altro, in particolare alla musica.
I miei viaggi sono stati tutti via terra fino a che a 38 anni – arrivato in vespa a Lampedusa – ebbi l’occasione di salpare alla volta di Linosa. In queste 25 miglia scoprii un modo di andare a vela completamente diverso da come lo ricordavo. Non c’era più gara e competizione, ma libertà e indipendenza. Quella piccola casa galleggiante era un nuovo modo di esplorare il mondo guardandolo dal mare. Decisi che dovevo imparare il più possibile.

Hai studiato per prendere la patente?
Dopo quel viaggio ho iniziato a formarmi prima come passeggero, poi con i corsi e come aiuto skipper. Nel 2012 ho fatto l’esame per la patente. In quel periodo avevo anche il forte desiderio di allontanarmi da casa e dalla vita che stavo facendo, così approfittai di alcune circostanze favorevoli per imbarcarmi per la traversata dell’Oceano Atlantico.
Partire per una traversata non è come prendersi una semplice vacanza. Che cosa stavi vivendo in Italia per avere questo desiderio di allontanarti?
Venivo da un po’ di anni di affanno con il lavoro, anzi con i miei lavori. Sono figlio di ristoratori, ho fatto la scuola alberghiera e mi sono inserito nell’attività di famiglia. Era una vita che all’epoca mi stava stretta, piena di obblighi, scadenze e burocrazia.
Per dieci anni ho fatto contemporaneamente anche il musicista di professione, ma alla fine ero stanco, non riuscivo a studiare e non ero più motivato. Aggiungici anche una crisi sentimentale per un rapporto che stava andando alla deriva e capisci che ero arrivato alla frutta.

Pensavo a questa avventura da almeno due anni, avevo organizzato il mio ruolo al lavoro in modo da non essere indispensabile. Decisi di prendermi un periodo sabbatico, diedi la notizia a casa, alla mia compagna e preparai lo zaino.
Dove ti sei imbarcato?
Ho scelto Creuza de Ma, uno swan super solido con uno skipper molto preparato. Sono salito a bordo a Malaga e da lì Stretto di Gibilterra, Marocco e Canarie, dove ci siamo fermati 15 giorni per fare manutenzione e cambusa. Da ristoratore è stato molto interessante vedere il criterio con cui si fanno le provviste e di quante cose serve tenere conto: giorni di navigazione previsti (e imprevisti), numero di persone, gusti personali e – da non dimenticare – lo spazio ridotto dove si deve far stare tutto. Da Tenerife abbiamo navigato 18 giorni per arrivare a Saint Martin, ai Caraibi.
Come racconteresti una navigazione di 18 giorni a chi non ha idea di che cosa significhi.
Arrivavo anch’io da esperienze di navigazioni più brevi ed ero molto curioso di come avrei reagito davanti a uno spazio così grande. Ma più che lo spazio quello che fa la differenza è il tempo. Dopo i primi giorni di emozione, novità e qualche malessere, il tempo inizia a trasformarsi. In barca non c’è granché da fare, il vento soffia più o meno sempre nella stessa direzione, la giornata è scandita dai pasti e dai turni al timone. Le ore che separano il pranzo dalla cena diventano infinite. Per un’attività banale come fare la barba – che a terra faccio in 2 minuti – potevo impiegare anche mezz’ora. Il tempo si dilata e ti catapulta in una nuova dimensione.

La traversata non è un’esperienza tecnica ma mistica, intima, molto personale. Almeno per me è stato inevitabile fare il punto del mio percorso di vita. Il mare è il posto giusto per riflettere, spogliarsi di tutto e ricominciare, per ritornare alle cose essenziali. Si legge, si scrive, in pozzetto si chiacchiera tanto. Ogni tanto si pescava un tonno e lo skipper ci insegnava a conservarlo nei barattoli per farlo durare di più.
Qual è stata la cosa più difficile da affrontare?
Da fuori l’Oceano sembra chissà cosa, ma dal punto di vista tecnico non è difficile. La fatica più grande è quella di staccarsi dagli impegni. Sono partito saturo di ansia e preoccupazioni e lungo la rotta mi sono alleggerito. Dopo essermi svuotato mi sono accorto che iniziava ad affiorare una sensazione che mai mi sarei aspettato. Iniziavo a pensare con nostalgia alla terra, a una passeggiata sull’erba, a una pianta di pomodoro nell’orto. Alla fine di quei 18 giorni avevo voglia di atterrare.
Hai riassunto la tua avventura nel docufilm: Avevo Bisogno dell’Oceano, disponibile su YouTube.
Avevo 40 anni, mi sentivo a un giro di boa. Ho voluto fissare questa esperienza in un filmato, senza voler insegnare niente a nessuno, solo con l’intenzione di raccontare – a me stesso per primo – chi ero e condividerlo con chi magari vive le mie stesse emozioni. Il mare mi ha aiutato a fare questo giro di boa e a disegnare la rotta verso la seconda metà della mia vita.
Dopo quanto sei rientrato?
Ho passato qualche altro mese in Sud America. Avevo immaginato di poter stare via da casa un anno, ma dopo 4 mesi, mentre ero in Costa Rica, mi arriva una telefonata da casa. La famiglia mi chiedeva di rientrare perché non c’erano le condizioni per far funzionare l’attività senza di me. All’inizio mi è dispiaciuto perché avevo ancora una lunga lista di cose da vedere e persone da incontrare. Però non è stato un trauma perché quello di cui avevo bisogno era già successo.

Cosa ti aspettava a casa?
In quattro mesi a terra non cambia nulla, era tutto uguale; quello cambiato ero io. Vedevo la mia vita con occhi diversi. Sono tornato pronto a riconoscere le radici del luogo dov’ero nato.
Ci ho messo molto tempo a metterlo a fuoco, ma a distanza di anni ho capito che in tutti i viaggi precedenti ero partito con lo scopo di trovare un modo per andare via dall’Italia e da casa mia. Con quel viaggio invece mi ero liberato di quel malessere e avevo capito che, per me, aveva molto senso dedicare energie a un posto che potevo chiamare casa, piuttosto che in un luogo in cui sarei sempre stato uno straniero.
Com’è cambiato l’approccio al viaggio?
Mi è capitato ancora di viaggiare negli anni successivi, ma sempre con il desiderio di tornare. Nel 2018 ho iniziato la grande avventura di essere padre. L’idea di viaggio che condivido con la mia compagna è quella di trasmettere ai nostri figli la gioia della scoperta e l’emozione della partenza, sentire un’altra lingua, provare altri sapori.

Il viaggiatore solitario che c’è in te chiama ancora?
Molto meno. Da quando sono papà mi è capitato di tornare a Caprera una settimana per un corso vela e sette giorni senza di loro mi sono sembrati tanti. Tempo fa avevo davvero bisogno di stare da solo, oggi mi ricapita, ma non c’è più malessere. Quel desiderio viscerale di partire e andarmene non mi ha più preso. Forse è ancora troppo presto, il tempo con i miei figli è troppo prezioso. Viaggio volentieri con la famiglia e mi piacerebbe, tra qualche anno, avere una barca per partire e navigare con loro.
Le foto di questo articolo sono di Gianluca Peretti, che ringrazio per avermi fatto viaggiare con le parole e con le immagini. Buon vento.