Ho la fortuna di intercettare Raffaella mentre è in Italia, proprio il giorno prima del volo che la riporterà sulla sua barca, in questo momento ormeggiata in Indonesia. Tra i velisti che si ritrovano su Facebook a parlare di barche quando non sono in barca, tutti conoscono Obiwan e il suo equipaggio: partiti nel 2015 per il giro del mondo non hanno nessuna fretta di concluderlo. Ho chiesto a Raffaella di raccontarci come è arrivata questa idea, partendo proprio dall’inizio.
Raffaella, da dove arriva la passione per la barca?
Ho iniziato un po’ per caso. Quando avevo 15 anni i miei genitori erano stufi di avere con sé, durante le vacanze, un’adolescente annoiata, così mia madre mi iscrisse a un corso di vela ai Glénans. Era un corso per principianti su derive, ma vedevo le barche grandi che partivano per le crociere: da subito mi è sembrata affascinante l’idea di poter fare il giro del mondo in barca.
Da adolescente non ti dicevano di studiare e pensare alle cose serie, invece che alla barca?
Ah sì, tutti. Ho sempre avuto un brutto rapporto con la scuola. Ho iniziato un liceo che non mi piaceva e dove non mi trovavo bene con i coetanei. Vivevo un grande conflitto tra la quotidianità e il sogno che coltivavo. Già alle medie avevo letto il libro di un adolescente che aveva circumnavigato il mondo in solitario a 16 anni. Una vita in mare, quindi, mi sembrava una cosa possibile.

Il percorso comunque è stato lungo. Ho sempre vissuto a Roma, andavo al mare solo per quelle due settimane di corso atteso tutto l’inverno. Poi crescendo ho fatto amicizia con persone che andavano in barca e appena potevo le raggiungevo. Ho lavorato per tanti anni nella ditta di famiglia e, finché non ho conosciuto mio marito, la vela era confinata nei giorni di ferie.
Come hai conosciuto Giovanni? Su che rotta vi siete incrociati?
La prima volta ci siamo incrociati all’Elba: io ero in barca con un amico comune e lui sulla sua. Faceva charter così sono tornata a bordo con lui in altre occasioni, finché ho detto: basta, non scendo più.

Fino a quel momento il percorso di Giovanni nella vela qual era stato?
Anche lui ha cominciato sulle derive da adolescente. Poi si è costruito da solo una barca, partendo proprio dalle assi di legno. L’ha venduta e ne ha presa una più grande fino ad arrivare a Obiwan, quella su cui navighiamo ora. Passava più tempo di me in barca perché d’inverno faceva l’insegnante di yoga e massaggi shiatsu a Livorno, mentre d’estate continuava l’insegnamento dello yoga a bordo della sua barca.
Come siete arrivati alla decisione di partire?
Quando ci siamo conosciuti abbiamo navigato tanto in Mediterraneo. Ad un certo punto è arrivata l’idea di partire per vedere il mondo e siamo passati in fretta dall’idea all’azione. Giovanni per anni aveva assistito suo padre anziano, quando è morto non aveva più la necessità di stare fermo in un posto. Io non ne potevo più di stare a Roma: nel giro di sei mesi ho lasciato il lavoro, venduto l’auto, svuotato e messo in affitto la casa. Così in poco tempo siamo partiti.

La tua famiglia come ha reagito?
Mia sorella si aspettava che prima o poi avrei fatto un colpo di testa. Con mio padre invece è stata dura: lavoravo nell’impresa di famiglia, per lui il lavoro era la vita e sognava di lasciare la ditta a me e mia sorella. Ma io lì dentro non centravo nulla.
Come ci si organizza per partire per un giro del mondo?
Prima di tutto si prepara la barca. L’inverno prima della partenza abbiamo passato tutti i fine settimana a lavorare su Obiwan. Doveva essere attrezzata, sicura e noi dovevamo conoscerla fin nei minimi dettagli. E poi c’è da mettere ordine in tutto quello che si lascia. Avere una famiglia che resta ed è disponibile a fare da tramite è molto importante, noi abbiamo delle sorelle su cui possiamo contare.

In base a cosa avete tracciato la rotta?
Prima siamo voluti tornare in Grecia perché amiamo quel mare e soprattutto i greci. Una volta puntata la prua verso ovest abbiamo seguito la rotta tropicale classica, dove i venti sono più tranquilli e le temperature più calde. I tempi sono decisi dalle stagioni: ci sono alcuni mesi in cui si può navigare e altri no. Per le soste avevamo delle idee, ma poi le abbiamo spesso cambiate seguendo i consigli di chi incontravamo. Come dico sempre: i programmi sono fatti per essere cambiati.
Vi siete dati dei tempi per fare tutto il giro?
Una delle cose che preferiamo è esplorare i luoghi che visitiamo e conoscere le persone che incontriamo. Ci piace scendere a terra, chiacchierare con la gente, capire come vive. Non ci siamo dati un termine, finché ce la facciamo e abbiamo le forze di stare per mare, navighiamo.

Come rendere sostenibile questa vita?
Le entrate principali arrivano dalle nostre case affittate. Ogni tanto ci capita di ospitare a bordo qualche amico che contribuisce alle spese.
La parte bella di un viaggio come il vostro è facile da immaginare: isole esotiche, avventure, tramonti. Qual è il lato oscuro?
Prima di tutto la lontananza dalla famiglia, dagli amici, dall’Italia. L’altro aspetto difficile da immaginare è il continuo stato di allerta a cui si deve fare l’abitudine. Chi va in barca sa di essere in balia del meteo. L’altro giorno ero in centro a Roma, vedo un albero che si muove, mi sale il battito e penso “oddio è girato il vento”. Ma la barca ora è ferma in Indonesia…
Come sei arrivata a scrivere 3 libri?
Scrivere mi è sempre piaciuto, è una passione che ho fin da adolescente e ho continuato a farlo. Il primo libro è frutto dell’esperienza come broker: Vacanze a vela – Mediterraneo è una guida al noleggio dove condivido quello che so sugli ancoraggi in Mediterraneo, le escursioni a terra e in generale qualche consiglio per passare una buona vacanza per mare.
Avevo poi da parte una serie di racconti scritti negli anni che l’editore mi ha convinto a mettere insieme: così è nato Il mare stellato sotto di noi, illustrato dal bravissimo Davide Besana.
L’ultimo libro Scalza, spettinata, abbronzata – il giro del mondo a vela su Obiwan descrive il viaggio dal 2015 al 2019, dalla Grecia all’Australia. Qui racconto quello che davvero significa per me un viaggio di questo tipo. Non si tratta solo di navigare, venti, vele da tirare su o giù. È l’incontro con le persone a fare la differenza.

Il racconto si interrompe proprio prima della pandemia.
Avevamo lasciato la barca in Australia pensando di passare in Italia un paio di mesi. Poi hanno chiuso i confini e siamo rimasti bloccati, siamo tornati su Obiwan due anni e mezzo dopo. Nella tristezza di non poter tornare in quella che per noi è casa, abbiamo avuto la fortuna di saperla in un posto asciutto, dove un amico australiano ogni tanto poteva andare a controllare, cambiare i teli, far passare aria. Lo scorso aprile l’abbiamo finalmente raggiunta: era sporca, ma tutto sommato in buono stato.

Ora quali sono i programmi?
Dopo qualche mese di lavori a terra siamo ripartiti, abbiamo passato la scorsa stagione tra le meravigliose isole della Papua Nuova Guinea e raggiunto l’Indonesia. A luglio passeremo in Thailandia e poi si vedrà.
Che consiglio daresti a chi, come voi, vuole vivere la vita in viaggio?
Noi abbiamo un unico rimpianto: quello di essere partiti tardi. Non bisogna stare a pensarci troppo, il mondo è grande. E poi per fare il giro del mondo secondo me non deve mancare una mentalità aperta. Si incontra gente di tutti i tipi, sia a terra che per mare: il nostro modo di vivere è solo uno dei tanti possibili, bisogna partire disponibili a comprendere e accogliere gli altri.

Per continuare a sognare lungo la rotta di Raffaella potete seguire la pagina Obiwan a vela intorno al mondo o vedere dove si sposta quel puntatore sulla mappa. Le foto di questo articolo sono di Raffaella Marozzini che ringrazio per aver trovato il tempo per questa intervista proprio nel bel mezzo dei preparativi per la partenza. Buon vento.