Alessandro e Amerigo sono due amici legati dalla passione per la vela.
La scorsa estate hanno deciso di mettersi alla prova in una lunga navigazione di un mese su un Tornado (un catamarano senza cabina). Il loro progetto No Cabin Crew si è evoluto e quella appena conclusa è stata solo la prima tappa.
Alessandro, 25 anni, va in barca da quando ha memoria grazie alla passione di famiglia. Laureato in ingegneria navale, per un periodo ha lavorato nella compravendita di navi cargo e ora è co-fondatore di una startup ecologica.
Amerigo, 28 anni, quando aveva due anni i genitori lo hanno portato nella traversata fino alle Azzorre e da allora non ha mai smesso di navigare. Lavora nel cantiere navale di famiglia che costruisce barche a vela performanti.
Da dove arriva la voglia di navigare 1000 miglia – da Venezia a Creta – con un catamarano senza cabina?
Ci siamo accorti che, dopo un po’ che si va a vela, la navigazione si trasforma in pranzi e cene a bordo, con il rischio di dimenticare la natura che sta intorno. La barca diventa una villa galleggiante che ci protegge dall’esterno. Noi eravamo abituati alle barche piccole in cui si cade in acqua, ma avevamo comunque la sensazione che tutto fosse sempre molto controllato: il coach, il gommone di assistenza, non ci è mai stata richiesta nessuna qualità di sopravvivenza. Invece noi volevamo metterci in una situazione di totale immersione nella natura e cavarcela solo con le nostre forze.
Come vi siete conosciuti?
[Alessandro] Facendo regate. Amerigo era sempre davanti, io sempre dietro. Con questa proposta sono riuscito a metterlo sulla mia stessa barca in modo che non arrivasse prima di me.

Come ci si prepara per un viaggio così lungo su una barca che non ha cabine, cambusa, strumenti elettronici?
[Amerigo] Questo viaggio si è giocato in buona parte durante la preparazione della barca. Abbiamo fatto una lista lunghissima di tutto quello che sarebbe servito e poi controllato quanta di quella roba saremmo riusciti effettivamente a caricare in barca. Lì ci siamo accorti di dover lasciare quasi tutto a terra perché lo spazio che avevamo a disposizione era pochissimo. Alla fine abbiamo portato la tenda e i sacchi a pelo per la notte, un fornello, una pentola, un po’ di cibo e i fucili da pesca. La cosa più importante: il kit di riparazione per la barca. Con questo tipo di barca non è solo lo spazio ma anche il peso di quello che carichi a fare la differenza.
[Alessandro] L’altra cosa di cui tenere conto spuntando la lista sono i costi. Cioè: puoi portare il massimo di quello che ci sta, ma anche di quello che ti puoi permettere. Abbiamo fatto un lungo confronto tra prodotti e fornitori: una cosa più economica ci dava la possibilità di comprare altro, ma una più costosa diminuiva il rischio di rotture. È stata anche quella una sfida.
Che budget avevate?
I nostri risparmi. Abbiamo messo nel progetto circa € 2000 ciascuno per comprare barca e attrezzatura. A fine viaggio abbiamo comunque la barca, o almeno quel che ne rimane, viste le numerose rotture lungo il tragitto.

Com’é la barca?
È un Tornado, un catamarano di circa 6 metri e mezzo, largo poco più di 3 metri. Albero di 10 metri circa, quindi molto invelata. Abbiamo toccato punte di 25 nodi, ci ha dato belle soddisfazioni. Il giorno della traversata abbiamo percorso circa 80 miglia e siamo riusciti a replicare anche in altre giornate con il vento a favore. Altre volte, pur navigando dalla mattina alla sera, abbiamo faticato a fare 15 miglia.
Anche i piccoli catamarani risentono delle bonacce.
[Amerigo] Tieni conto che con 5-6 nodi di vento la nostra barca ne fa già 4. Però ci sono state delle occasioni in cui siamo stati ore fermi in mezzo al mare. In quei momenti ne approfittavo per mangiare o fare dei sonnellini.
[Alessandro] Io in realtà vivevo le bonacce con più preoccupazione. È la cosa che ha messo più in difficoltà la mia concentrazione e il mio morale: non poter avanzare, stare fermi sotto al sole a picco, sapere che se non arrivi prima del tramonto tutto si complica, rischia di essere pericoloso e non riesci a pescarti la cena. A me metteva molta frustrazione, ma la tranquillità di Amerigo mi confortava.

Avevate riserve d’acqua a bordo?
Abbiamo usato due taniche d’acqua come serbatoi e con quelle riempivamo le borracce. Avevamo fatto un calcolo di quanta acqua serviva al giorno e ce la facevamo bastare fino all’approdo successivo. Era un elemento cruciale per la riuscita del viaggio: non potevamo restare senza, ma non potevamo nemmeno esagerare perché significava molto peso concentrato in un punto che sbilancia la barca e causa stress alle parti strutturali. Lungo il percorso l’acqua è diventata anche un pretesto per fare amicizia. A volte siamo andati a bussare nelle case vicino alla spiaggia per chiedere se ci potevano riempire le taniche e con l’occasione avvisavamo della nostra presenza e ci presentavamo.
La vostra cena tipica?
All’inizio le nostre doti di pescatori lasciavano un po’ a desiderare, stavamo un’ora in acqua senza prendere nulla e finivamo a grattare via qualche lumachina dagli scogli tornando al buio. Con il tempo siamo diventati più bravi e ci siamo procurati degli ottimi pasti: una cernia, dei saraghi, murene. Le murene erano la nostra gioia e la nostra disperazione: sono buone da mangiare ma una maledizione da pulire. Avevamo con noi pasta e scatolame, facevano delle belle zuppe di mare. Ricordo con nostalgia una zuppa di ceci, polpo, cozze, ostriche e lumachine di mare sull’isola di Brac sotto a Spalato.
Come vi sistemavate per la notte?
Cercavamo una spiaggia per piantare la tenda o dormire sotto le stelle. Nei porti non eravamo ben accetti, ma non era neanche il nostro obiettivo. Eravamo partiti a caccia di baie selvagge e luoghi inesplorati. Ci abbiamo messo due settimane per trovare la prima spiaggia completamente disabitata ma ce l’abbiamo fatta in Albania.

Il momento più bello del viaggio qual è stato?
Proprio quello sbarco in Albania. Venivamo dal Montenegro dopo una veleggiata incredibile con il vento in poppa, avevamo preso onde e velocità incredibili. Stava facendo buio, abbiamo deciso di andare verso terra e siamo sbarcati in un posto meraviglioso: una spiaggia deserta circondata da dune di sabbia. È stato davvero emozionante, era quello che cercavamo.
C’è stato il momento “chi me lo ha fatto fare”?
Eccome! È stato il giorno in cui abbiamo messo più alla prova le capacità strutturali della barca. Per colpa del brutto tempo ci eravamo rifugiati due giorni in una baia per nulla interessante: non c’era pesce, il fondale era melmoso e il nostro accampamento non era protetto. Al terzo giorno volevamo andarcene a tutti i costi e siamo usciti con un vento da sud che in Croazia chiamano Jugo. Era fortissimo, alzava un’onda grossa e si incanalava tra le isole curvando continuamente. Con nessun tipo di bordo riuscivamo ad andare dove volevamo né a tornare indietro. Ecco in quel momento abbiamo davvero urlato “chi ce l’ha fatto fare?!”.
Quanto è durato il viaggio?
Siamo partiti il il 22 agosto dal Marina di Volano alle foci del Po. Abbiamo affrontato subito il tratto più pericoloso per noi: la traversata verso la Croazia, 60 miglia lungo le quali non avremmo trovato riparo in caso di maltempo. È stata la tappa più meditata, tutto il resto era navigazione costiera. Croazia, Montenegro, Albania e infine il 16 settembre siamo sbarcati a Corfù. Con una buona dose di amarezza abbiamo dovuto fermarci lì.

Come mai non siete arrivati a Creta?
Nel momento in cui siamo arrivati in Grecia Ionica, è arrivato il Ciclone Ianos che ha fatto seri danni e ha avuto lunghi strascichi in tutta l’area. Noi eravamo già in ritardo sulla tabella di marcia e non potevamo aspettare una settimana per avere di nuovo le condizioni per proseguire. Corfù era il posto più sicuro per lasciare la barca per l’inverno e anche quello più facilmente raggiungibile per tornare a continuare l’avventura.
Quindi il viaggio continuerà.
Il progetto non si è concluso, anzi si è ingrandito. Diciamo che abbiamo portato a termine la prima tappa. All’inizio della prossima estate partiremo da Corfù per navigare verso le isole ioniche e arrivare a Creta. Ci piacerebbe aggiungere anche altre tappe: il Dodecaneso, risalire l’Egeo. Vedremo.

Quali ripercussioni ha avuto il viaggio nella vita quotidiana?
[Alessandro] Il contatto che abbiamo avuto con la natura e con il mare ci hanno fatto realizzare quanto sia forte l’impatto delle attività umane sull’ambiente marino. Dopo aver visto da vicino la condizione dei nostri mari ho voluto provare a dare un contributo usando le mie competenze in una startup che ha come obiettivo quello di ridurre la sovrapesca nei mari: Ittinsect.
Ho scoperto che un quarto del pesce pescato non è destinato al consumo umano, ma viene ridotto in farine per nutrire i pesci in allevamento. È assurdo che si peschi pesce selvatico per darlo a pesci allevati. Il progetto propone di sostituire le farine di pesce con farine derivate dagli insetti. È fattibile e soprattutto sta in piedi economicamente, ci guadagnano tutti. Non è una no profit, non è attivismo, è business ed è economicamente interessante per tutta la filiera dell’allevamento ittico. Lo abbiamo presentato durante la Startup³ Innovation Weekend e siamo arrivati secondi. Dopo il secondo posto anche all’edizione veneziana del Climathon siamo stati selezionati per partecipare al Global Climathon.
Vorremmo fare di più e se i nostri prossimi viaggi fossero utili a dare visibilità ad aziende sensibili al tema della protezione dei mari e volessero sviluppare progetti ecosostenibili, siamo pronti a collaborare. Fatevi avanti.

Tutte le foto di questo articolo sono di Alessandro e Amerigo che ringrazio per aver condiviso non solo il racconto ma anche il loro entusiasmo. Buon vento per tutte le prossime tappe!